di
Emanuele
Marcuccio
Photocity
Edizioni, Pozzuoli (Na), 2012, pp. 47
ISBN:
978-88-6682-240-0
Genere:
Saggistica/Aforismi
Prefazione,
a cura di Luciano Domenighini
Postfazione,
a cura di Lorenzo Spurio
Curatrice
d’opera: Gioia Lomasti
Cover:
Francesco Arena
Prezzo:
7,60 €
Recensione
a cura di Natalia
Di Bartolo
Leggere
un libro è sempre opera di scoperta e d’indagine, non solo nei confronti dei
contenuti espressi dall’autore, ma anche nei confronti di se stessi.
Di
fronte alla raccolta Pensieri minimi e massime (Photocity Edizioni,
2012), di Emanuele Marcuccio, poeta palermitano, classe 1974, è consigliabile
avere avuto un approccio non solo con la sua prima silloge poetica Per una
strada (SBC Edizioni, 2009), che cronologicamente la precede, ma
possibilmente anche con i suoi “documenti biografici” personali, quelli che
l’autore denomina “cronologia bio-bibliografica”.
Tale
denominazione dimostra a chi si accosti successivamente alla lettura del suo
secondo libro, come nell’opera letteraria in questione ci si trovi davanti
comunque ad una sorta di agenda-diario, in cui la vita e lo scrivere si fondono
e si integrano inscindibilmente ed il cui archetipo è plausibile che sia stato
generato (piace immaginarne il seguito scritto a mano ancora oggi), nei tempi
della prima adolescenza, giorno per giorno, avvenimento per avvenimento. Ogni
più piccolo dato “cronologico bio-bibliografico”, infatti, è stato ed è ancora
oggi curato e “repertato” privatamente dall’autore con la certosina pazienza
dettata dalla costanza e dal perseguire coscienziosamente lo scrivere, che egli
ha ritenuto essere la propria strada e che adesso si è concretizzato anche in
questa seconda pubblicazione, corredata da una personale “Introduzione alla
Poesia” a cura dell’autore stesso.
Tale
costanza, alimentata dalla passione per la propria attività, ha contribuito a
rendere la strada suddetta decisamente valida da percorrere e questa, sia pure
“sentiero scosceso” (22), in salita come tutte le “strade artistiche”, è stata
ed è supportata da documenti vergati con tale determinazione e puntiglio da far
pensare che quello dell’autore sia un metodo ammirevole e potenzialmente
vincente.
Ma,
tornando all’opera letteraria di cui trattasi, occorre leggere i pensieri e le
massime di Emanuele Marcuccio soprattutto tenendo conto della sua indole di
Poeta. È un’indole innata, che si manifesta fin dal 1990, in giovanissima età,
sui banchi di scuola, che si pone come impellente ed imprescindibile, facendo
sì addirittura che il poeta scriva per la strada, per esempio, dove, non avendo
altro supporto cartaceo, appunta i versi su uno scontrino, o si destreggi in
piedi con carta e penna su un autobus affollato: la forza incontenibile
dell’ispirazione.
Ci
si può chiedere, allora, come mai, quale seconda opera letteraria, il Marcuccio
pubblichi un libro di pensieri e massime e non di altre poesie. Ad avviso di
chi scrive, alla luce di quanto sopra rilevato a proposito del suo tenere in
archivio ogni particolare della propria vita letteraria, il suo carattere è
permeato anche da una positivamente pervicace volontà di “memoria esplicativa”,
che serva a rendere pure più agevole il percorso della sua poetica, per il
lettore e per se stesso. Il Poeta fa chiarezza, nei pensieri e nelle massime,
perché ne sente la necessità, ma anche perché farlo è utile a chi legga ciò che
ha già scritto in poesia e ciò che scriverà in futuro. Nulla è lasciato al
caso, anche se aforismi e massime si rincorrono apparentemente senza ordine
d’argomento.
S’inizia
a trattare di Dolore: l’autore lo mette in prima linea, lo paragona al mare,
con il fluire incessante dell’acqua, memore del bagaglio poetico degli studi
umanistici, ma Uomo già abbastanza addentro alla vita per poter aver provato,
come tutti, l’umanissimo, cocente sentore di sofferenza a cui si attribuisce
l’ampia accezione di “dolore”, contro il quale, a suo dire, può solo l’Amore
(8). E di nuovo campeggia tale Dolore, illuminato da un lampo di speranza (2).
E dal dolore alla Musica (3), felice cambio di registro.
Poi,
transitando per la Felicità (5), passa al Tempo (6); e dal Tempo, finalmente,
alla Poesia, tema fondante dell’intera opera. Poesia che nasce dall’Ispirazione
(10), punto nodale della poetica del Marcuccio.
Nell’Ispirazione
egli ritiene che l’inconscio si possa addirittura perdere, come in una strada
spoglia, senza fronde, senza appigli. Tenendo sempre quale fulcro la Poesia,
scrive dell’Ispirazione in diversi aforismi, incrociandola con la Cultura,
ritenendola madre della riflessione e della scrittura (22), entità breve,
fuggitiva e svelta: ai poeti saperla afferrare e trattenere stretta al cuore
(27), ma capricciosa padrona che spesso tarda a far loro visita (28); caos nel
quale solo i poeti riescono a mettere ordine (53). E da qui si dipartono ancora
riflessioni calzanti sulla Cultura, si ritorna alla Musica, ritenuta
espressione superiore anche alla Poesia nell’essere capace di far intuire
l’Universo (36) e si aprono ulteriori ma non secondarie digressioni sulla
Lingua, sulla traduzione in lingua straniera dei testi poetici da effettuarsi
senza esitazione possibilmente da parte dell’autore stesso (il Marcuccio è pure
un ottimo traduttore in Inglese), perché, anche se “l’abito è cambiato”,
permanga ugualmente il suo spirito (38); così come prima egli aveva posto
l’accento sull’importanza del non rinnegare mai il proprio dialetto (20).
E
ancora riflessioni sull’essere umano, sulla sua ipocrisia nella falsa amicizia
(16), ma anche e soprattutto sul suo ruolo fondamentale di fruitore della
Poesia, motivo per cui costui compare, a questo punto, tra gli aforismi e le
massime. L’autore lo ritiene addirittura “creatore” del Poeta, che senza di lui
e la sua trasmissibile emozione non esisterebbe (49) e si inoltra poi
nell’ambito puramente tecnico-filologico di quella Lingua che egli ritiene
adatta alla Poesia, dall’incipit all’explicit (55).
Musicalità,
fluidità e spontaneità, sintesi folgorante, ispirazione, senza mediazioni né di
metrica, né di rima: tutto questo è vera Poesia” secondo il Marcuccio (58),
poeta “ribelle come il fuoco” (torna in mente Cecco
Angiolieri)
anche ai canoni della Prosa, così come un autentico poeta, a suo dire, deve
essere (59).
Le
pause in poesia ed in prosa (59 e 60), la punteggiatura, il bagaglio letterario
in generale vengono presi in considerazione, così come si accennava
precedentemente, in una volontà finalizzata anche all’esplicazione della
tecnica poetica dell’Autore.
E
dagli argomenti più specifici, ecco di nuovo dispiegarsi la concezione di
Poesia del Marcuccio nel senso più ampio del termine. Egli, dopo gli aforismi
riguardanti il proprio giudizio sui fruitori della Poesia , il “mercato”, i
gusti dell’ “illetteratura” che imperano nel nostro mondo (70), si apre
nuovamente alla ricerca di quella “definizione” di Poesia” che egli stesso sa
introvabile, perché la Poesia non ha confini e quindi non può essere definita
(73), “rende l’ordinario straordinario” (74), non è al sevizio di nessuno e
“quando vuole ci visita, basta rimanere in ascolto attento e attentamente
osservare” (76).
Ma
il Marcuccio non si definisce “Poeta”: la ritiene una parola troppo importante
per attribuirsela da sé: “è sempre meglio essere chiamato poeta dai propri
lettori” (78). E’ dal cuore che i poeti traggono tesori (83), ma cosa c’è fuori
dal proprio cuore? “Che cos’è la folla se non apparenza?” (86) e gli uomini
hanno “gli occhi foderati dalle nebbie del pregiudizio” perché si fermano alle
apparenze (87). Allora forse è meglio stare lontani dal mondo, quando si può, e
leggere, perché leggendo si riesce a frenare il tempo (12) e “si vivono
innumerevoli vite sognando” (84). E, come si era constatato nell’aforisma quaranta,
è proprio perdendosi nei sogni che, secondo il Marcuccio, si riesce ad ignorare
la realtà, ovvero il crudo dolore di vivere, che pure serve per non annegare:
ecco il ritorno all’inizio, all’acqua, al mare, “nel suo indistinto ondeggiare
e rifluire incessante” (1); aggancio assolutamente velato, all’apparenza, ma
che contribuisce a donare coerenza all’intera raccolta.
In
essa il Marcuccio, intendendo mettere nero su bianco i suoi pensieri più
pregnanti, invece di farlo in quella prosa ampia e stilisticamente coercitiva
che non sente propria, lo fa in “pensieri minimi e massime”, come schivando la
sua avversione verso la letteratura in prosa, ma servendosene ugualmente, con
assunti sintatticamente spesso semplici, ma mai banali nei contenuti.
È
riuscire a leggere il libro con la massima attenzione fin dall’inizio che ne dà
il vero senso: al primo impatto, se quest’ultimo è superficiale, risulta
possibile che l’opera non venga colta nella interezza della propria profondità
e della propria utilità, perché potrebbe risultare un insieme apparentemente
indistinto di riflessioni su argomenti svariati in ordine sparso. Se sviscerata
con l’intento di penetrarne il significato fin dal primo pensiero, viene fuori,
invece, il suddetto filo conduttore, tutto ciò che veramente l’autore ha
sentito di esprimere, mediando pure tra Fede Cristiana ed amore per la Poesia
Classica, in particolare per quella Tragica Greca (39) e per quella di
Shakespeare, che traspare lampante da alcuni aforismi (non solo nel sessantanove,
dove si opera palesemente una parafrasi della celebre frase de La Tempesta:
“Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, che qui diventano
“le stelle”, ma anche nel ventotto e poi nel settantasei, dove aleggia lieve la
Queen Mab di Romeo and Juliet).
Quasi
liberatorio, poi, appare l’aderire dell’autore alla celebre poetica del
Pascoli, in quell’“obliato proprio sé
fanciullo” (da un verso della sua poesia “Sé e gli altri”, tratto dal
volume Per una strada), condividendola ed esprimendone la condivisione
senza alcuna remora né riserbo, senza alcun timore di ripetersi né di ripetere.
Il
Marcuccio conduce il lettore tra le pagine di questa breve raccolta proprio con
i pensieri che più lo rappresentano, che maggiormente danno l’idea della sua
condizione di poeta che, pur nella sede specifica non poetando, sa trasmettere
anche in tale contesto la profondità del proprio sentire, per se stesso e per
chi legga. Quindi, ritornando all’inizio del presente commento, chi scrive,
dopo aver condiviso tanti pensieri, dopo aver letto tante massime che a volte,
proprio nella loro costruzione, esse stesse appaiono illuminate da un bagliore
poetico, torna, chiudendo il personalissimo circuito del proprio sentire, a riflettere
come sia vero che “leggere un libro è sempre opera di scoperta e d’indagine,
non solo nei confronti dell’autore, ma anche nei confronti di se stessi”.
Natalia Di Bartolo
(Scrittrice, Poetessa, Critico
Letterario-recensionista)
Catania,
19 novembre 2012
È SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O RIPRODURRE QUESTA RECENSIONE
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