Oggi ricorre l'80° anniversario della morte del grande Federico Garcia Lorca (1898-1936), fucilato, barbaramente assassinato presso Viznar, nella pianura di Granada, all'alba del 19 agosto 1936.
Sulla sua morte Pablo Neruda così scrive: «L'assassinio di Federico fu per me l'avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L'arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l'antica lotta mortale fra l'ombra e la luce.» (da Confesso che ho vissuto)
Tra il 1997 e il 2000 omaggiai Lorca con quattro poesie, di cui due sono ispirate da quel 19 agosto. Quattro poesie in cui ho cercato di rivisitare liberamente il suo stile. Le quattro poesie di questo ciclo nel marzo 2013 sono state tradotte in lingua spagnola dallo scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio. Lo stesso che due anni dopo, in questo mese d'agosto ha dedicato un saggio storico-letterario a quelle due poesie ispirate a quel barbaro assassinio: L'impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio, pubblicato poi nello stesso anno alle pp. 20-27 della prestigiosa rivista di letteratura Quaderni di Arenaria, volume ottavo, diretta dal poeta, scrittore e critico letterario Lucio Zinna. Di seguito riporto il terzo dei quattro omaggi: "Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca"[1], insieme a due pagine del saggio di Spurio:
Putrida vena,
d’un orizzonte
disseccato.
I nardi esplorano
il loro chiacchiericcio
inconsueto,
e nuvole di fango
inondano
coi loro piombi
infuocati.
Un’alba azzurra
si stende solitaria
su ambiguo crocevia,
e un riverbero di
verde luna
si accende, su occhi di
fumo.
Marcuccio
esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione
olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue
(una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra
volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in
cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce
un olezzo “putrid[o]” alla
definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la
nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e
apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole,
unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra
presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della
lirica. L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di
quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di
particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita
nelle poesie lorchiane[2])
vengono colti nel loro “chiacchiericcio
inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente
spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri
occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima
immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto
e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto
cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”. Inizia in questo
modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con
soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con
particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo
sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”,
indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben
presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte
nel momento del fuoco. Il silenzio della campagna prima armonizzato dalla
presenza di un lieve “chiacchiericcio”
dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e
hanno colpito i bersagli.[3] È il
momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra,
faccia sull'erba secca, della fine delle speranze e al contempo un
ammutinamento della natura che, indifesa ed oltraggiata, non è capace di
osservare il sangue che cola a terra.
La poesia è
sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione
temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una
“alba azzurra” che ha perso, però, la
coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo ed infatti
essa appare “solitaria” quasi da
stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto
di essa. Tutto a questo punto resta galleggiante nell'indefinitezza, nell'impossibilità
di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva
cantato la Terra: l’alba è “solitaria”
e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia perché, come detto sopra, il luogo
dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e
permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile
dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro
toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte
perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.
Marcuccio
mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con
doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la
componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi
costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei
campi “disseccat[i]”, il grigio scuro
delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza
dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a
rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione ed ancora, la luna nel
suo “riverbero di verde”. La luna
quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte
così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la
obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide di indossare l’abito
verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da
divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche
che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto
nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una
delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.
Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente
naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della
fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del
poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai
vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano
rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli
ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni
notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua
inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo
sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso
e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema,
proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell'utilizzo della
tavolozza dei colori. (pp. 24-25)
[1] Emanuele Marcuccio, Per una strada, Ravenna, SBC Edizioni, 2009, p. 75.
[2] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua/ con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina/ col suo paniere di nardi”).
[3] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.