sabato 28 gennaio 2017

«Nelle Ferite del Tempo», a cura di G. Lomasti e E. Marcuccio: donate le royalty alla Protezione Civile - Emergenza Terremoto

Versate, per un importo di settecentocinquanta euro (€ 750), alla Protezione Civile – Emergenza Terremoto, le royalty derivanti dal Progetto antologico di Autori Vari ideato e curato dai poeti Gioia Lomasti e Emanuele Marcuccio «Nelle Ferite del Tempo. Poesia e Racconti per l’Italia» uscito nel settembre 2016. 




Realizzazione progetto locandina a cura dello scrittore Gaetano Cuffari. Ringraziamo per l’acquisto e la promozione dell’opera o tutto ciò non sarebbe stato possibile.






SCHEDA DEL LIBRO



TITOLO: Nelle ferite del tempo
SOTTOTITOLO: Poesia e racconti per l’Italia
A cura di: Gioia Lomasti e Emanuele Marcuccio
PREFAZIONE: Luciano Somma
Editing Cover Images: Marcello Lombardo e Gioia Lomasti
Contributo interno testo: "One World", xilografia di Stephen Alcorn
EDITORE: Photocity Edizioni
Link di acquisto: http://goo.gl/qVRKlU
GENERE: Poesia/Narrativa/Antologie
PAGINE: 128
ISBN: 978-88-6682-798-6
COSTO: € 10
QR code per acquisto


sabato 29 ottobre 2016

Jesi, la città federiciana ospiterà la cerimonia di premiazione del 5° Premio di Poesia "L'arte in versi" il 6-11-2016



La cerimonia di premiazione della V edizione del Premio Nazionale di Poesia "L'arte in versi" -con il Patrocinio della Regione Marche, della Provincia di Ancona e del Comune di Jesi- si terrà nel pomeriggio di domenica 6 novembre a partire dalle ore 17:30 a Jesi (AN) presso la Chiesa di San Nicolò (Vicolo di San Nicolò 1 / Corso Matteotti).
 
Presenterà e condurrà l’evento il Presidente del Premio, dott. Lorenzo Spurio, coadiuvato dalla dott.ssa Susanna Polimanti che ha presieduto la Commissione di Giuria formata da esponenti del panorama culturale nazionale: Michela Zanarella, Emanuele Marcuccio, Valentina Meloni, Giuseppe Guidolin, Stefano Baldinu, Cinzia Franceschelli, Alessandra Prospero e Luigi Pio Carmina.

Durante la serata si terranno intervalli musicali ad opera dei ragazzi della Scuola Musicale “Gian Battista Pergolesi” di Jesi diretta da Sergio Cardinali.

La Commissione di Giuria provvederà a consegnare i premi ai vincitori assoluti, ai menzionati e i premi speciali scaturiti da un’attenta operazione di lettura, analisi e valutazione dei 1300 testi pervenuti a concorso.

Per la sezione poesia in lingua italiana il 1° premio verrà consegnato a Lucia Bonanni di Scarperia / S. Piero a Sieve (FI) con la poesia “Da Viznar a Pripyat”, il 2° premio a Rita Muscardin di Savona con la  poesia “Padre se ancora m’ascolti” mentre il 3° premio alla poetessa sarda Carla Maria Casula di Alghero (SS) con “Parole di pioggia”.
 
Per prendere visione dei nominativi di tutti premiati e l'intero verbale di Giuria, il link di riferimento è questo: http://arteinversi.blogspot.it/2016/09/v-edizione-del-premio-larte-in-versi-il.html 
 
Verranno conferiti anche dei Premi Speciali tra cui il Premio alla Carriera alla poetessa milanese Donatella Bisutti ed i Premi alla Memoria rispettivamente alla poetessa calabrese Giusi Verbaro che ci ha lasciato l'anno scorso e il poeta Pasquale Scarpitti, voce inconfondibile dell'Alto Sangro.
 
Si invitano i vincitori ad ogni titolo (vincitori, menzionati e segnalati) a dare la propria conferma di presenza alla cerimonia o la loro impossibilità scrivendo alla mail del premio (arteinversi@gmail.com) entro e non oltre il 31 ottobre p.v.
I premi di coloro che non potranno venire e di coloro che non avranno comunicato la loro presenza non verranno portati in sala e potranno essere spediti -salvo i premi in denaro- dopo la cerimonia di premiazione.
A queste persone giungerà una nuova mail con le modalità di invio dei rispettivi premi a domicilio.
 
Per coloro che vengono da fuori si segnala il link del Comune di Jesi dove è possibile trovare indicazioni su dove poter pernottare in città: http://www.turismojesi.it/default.aspx?pag=0.2.3&lang=it
 
In Facebook è stato aperto il relativo evento della Premiazione al concorso dove sarà possibile seguire tutte le informazioni che l'organizzazione vorrà dare: https://www.facebook.com/events/1167020173357647/
 

Info:


venerdì 19 agosto 2016

"Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca", nell'80° Anniversario

L’immagine riproduce l’opera “Fucilazione in campagna”
di Renato Guttuso (1911-1987).
Immagine pubblicata a fini esclusivamente
culturali e non commerciali.
I diritti (Copyright ®) sono riservati ai legittimi proprietari.




Oggi ricorre l'80° anniversario della morte del grande Federico Garcia Lorca (1898-1936), fucilato, barbaramente assassinato presso Viznar, nella pianura di Granada, all'alba del 19 agosto 1936.
Sulla sua morte Pablo Neruda così scrive: «L'assassinio di Federico fu per me l'avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L'arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l'antica lotta mortale fra l'ombra e la luce.» (da Confesso che ho vissuto)
Tra il 1997 e il 2000 omaggiai Lorca con quattro poesie, di cui due sono ispirate da quel 19 agosto. Quattro poesie in cui ho cercato di rivisitare liberamente il suo stile. Le quattro poesie di questo ciclo nel marzo 2013 sono state tradotte in lingua spagnola dallo scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio. Lo stesso che due anni dopo, in questo mese d'agosto ha dedicato un saggio storico-letterario a quelle due poesie ispirate a quel barbaro assassinio: L'impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio, pubblicato poi nello stesso anno alle pp. 20-27 della prestigiosa rivista di letteratura Quaderni di Arenaria, volume ottavo, diretta dal poeta, scrittore e critico letterario Lucio Zinna. Di seguito riporto il terzo dei quattro omaggi: "Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca"[1], insieme a due pagine del saggio di Spurio

Putrida vena,
d’un orizzonte disseccato.
I nardi esplorano
il loro chiacchiericcio inconsueto,
e nuvole di fango inondano
coi loro piombi infuocati.
Un’alba azzurra
si stende solitaria
su ambiguo crocevia,
e un riverbero di verde luna
si accende, su occhi di fumo.

Marcuccio esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue (una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce un olezzo “putrid[o]” alla definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole, unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della lirica. L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita nelle poesie lorchiane[2]) vengono colti nel loro “chiacchiericcio inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”. Inizia in questo modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”, indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte nel momento del fuoco. Il silenzio della campagna prima armonizzato dalla presenza di un lieve “chiacchiericcio” dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e hanno colpito i bersagli.[3] È il momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra, faccia sull'erba secca, della fine delle speranze e al contempo un ammutinamento della natura che, indifesa ed oltraggiata, non è capace di osservare il sangue che cola a terra.
La poesia è sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una “alba azzurra” che ha perso, però, la coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo ed infatti essa appare “solitaria” quasi da stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto di essa. Tutto a questo punto resta galleggiante nell'indefinitezza, nell'impossibilità di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva cantato la Terra: l’alba è “solitaria” e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia  perché, come detto sopra, il luogo dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.
Marcuccio mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei campi “disseccat[i]”, il grigio scuro delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione ed ancora, la luna nel suo “riverbero di verde”. La luna quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide di indossare l’abito verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.
Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema, proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell'utilizzo della tavolozza dei colori. (pp. 24-25)










[1] Emanuele MarcuccioPer una strada, Ravenna, SBC Edizioni, 2009, p. 75. 

[2] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua/ con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina/ col suo paniere di nardi”).
[3] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.

venerdì 12 agosto 2016

Sulle "scuole di poesia", un pensiero di Emanuele Marcuccio




Non è concepibile una cosiddetta "scuola" di poesia, dove "professori di poesia" pretenderebbero di impartire ai loro allievi "lezioni di poesia". Il termine scuola presuppone un sapere che raggiunge persone che ancora non sanno, quindi, queste "scuole" presupporrebbero di insegnare la poesia partendo da zero. Non esiste una definizione univoca di poesia, la poesia non ha regole fisse -quelle se le dà il singolo poeta, secondo il proprio metro di bellezza e di sentire poesia- e vogliono fare "scuola di poesia", che presuppone l'insegnamento di un sapere codificato? Tutto ciò è demenziale. Scrivo poesia da più di venticinque anni e so per esperienza che la poesia non si impara né si insegna in nessuna scuola. La poesia si legge, si sente, si vive per poi arrivare a scriverla, ma soprattutto si legge. L'unica scuola di poesia è quella dei grandi poeti. 

Emanuele Marcuccio

martedì 5 luglio 2016

Introduzione al dramma d'Islanda in versi liberi, recentemente completato

«Ingólf Arnarson»
Le ragioni della scrittura di un dramma epico1 in versi liberi
Una introduzione a cura dell’Autore2
(Versione aggiornata alla pubblicazione del dramma)


Nel maggio del Novanta ho avviato la scrittura di un dramma epico in versi liberi e non in rima, ambientato al tempo della colonizzazione dell’Islanda (IX sec. d.C.), di argomento storico-fantastico. L’ambientazione è storica3 ma la trama è fantastica4, l’unico personaggio storico-leggendario è Ingólf5, il quale non è certo se sia mai esistito, gli altri personaggi sono frutto della mia invenzione. I loro nomi sono stati ricavati direttamente dall’onomastica islandese (lingua che non conosco ma sulla quale mi sono documentato), ovviamente, gli indigeni che si incontreranno dal secondo atto in poi, non hanno cognome ovvero non hanno un patronimico e, anche la loro presenza è del tutto fantasiosa e funzionale nell’economia del dramma.
Nel dramma mi sono servito di una mia personale e astorica presenza in Islanda di popolazioni indigene di stirpe germanica, di credenza pagana e prossime alla conversione al cristianesimo, alle quali ho contrapposto i normanni6 (o i vichinghi) ossia gli uomini del nord (norsemenn), i norvegesi che furono grandi colonizzatori del nord Europa, di fede pagana. Chiaramente, si tratta, di una mia scelta utilizzata per la caratterizzazione dei personaggi che non è motivata da fondamenti culturali-letterari né storici-documentatistici.
Ma come è nata questa mia passione per l’Islanda? Fin da adolescente, dal 1988, dopo la visione di meravigliose immagini paesaggistiche islandesi nell’enciclopedia ho acquistato una guida ai Paesi nordici (in realtà cercavo un libro sull’Islanda, anche una guida turistica), poi, in biblioteca, ho letto l’interessante racconto ottocentesco di Natale Nogaret, Viaggio nell’interno dell’Islanda7, però, la scintilla, l’ispirazione per scrivere quello che in seguito sarebbe diventato il dramma epico, è scoccata nel 1989, in quinta ginnasiale, colpito dalle fascinose immagini di un opuscolo turistico inglese sull’Islanda, Around Iceland, ricevuto in regalo. Affascinato da quei paesaggi, pur vedendoli solo in fotografia, in quell’opuscolo turistico inglese, che conservo gelosamente, tanto da avermi ispirato un dramma, ambientato appunto in Islanda. Tra ottobre di quell’anno e marzo del Novanta, abbozzo in prosa quello che diventerà il primo atto del futuro dramma d’Islanda e, dal 28 maggio 1990 parte la trasposizione in versi del primo atto aggiungendo alla fine il prologo.
In questo dramma l’Islanda la chiamo sempre con l’antico e leggendario nome di “Thule”, in riferimento al suo primo scopritore, l’esploratore, astronomo e geografo greco Pitea di Marsiglia (380 - 310 ca. a.C.) che scoprì l’isola, secondo la tradizione, durante un viaggio di esplorazione dell’Europa nord occidentale, intorno al 325 a.C.
Il 19 aprile 2016 ho completato il dramma epico in versi liberi che è stato pubblicato il 28 agosto 2017 dalla marchigiana Le Mezzelane Casa Editrice nella collana di Poesia "Ballate": un totale di 2380 versi con un lavoro di ben diciannove anni escludendo i sette complessivi di interruzione, cesellando il verso, sempre alla ricerca della migliore musicalità e fluidità nel ritmo, nella cadenza e alla lettura. Versi liberi e non certo anarchici, versi di varia lunghezza, sorretti da una diversa metrica, costituita non dal numero delle sillabe o dalla rima ma da assonanze, consonanze, figure di suono e dalle necessarie figure retoriche. Con tutto il rispetto per i grandi poeti della nostra letteratura, i quali, fino all’Ottocento hanno fatto largo uso di metrica quantitativa, al punto da comprendere che il suo impiego non era più necessario. E se nella poesia tout court, dal gennaio 2013 ho abbandonato la punteggiatura, sempre alla ricerca di una maggiore sintesi ed essenzialità, nella poesia del dramma non mi è stato possibile farlo, in quanto lo ha richiesto lʼars narrandi, la quale ha dovuto sottostare al dolce giogo dellʼars poetandi.
Nel 2010 un amico compositore, dopo aver letto il prologo e un paio di scene del primo atto (una tempesta, una battaglia e un monologo), decide di scrivere le musiche di scena per questo mio dramma epico. Attualmente sta componendo un primo abbozzo di pot-pourri dei brani che saranno poi inseriti, come musiche per i vari atti e anche il suo maestro di composizione gli ha dato il suo parere favorevole. Preciso che si tratta di musiche di scena in senso proprio, non di un’opera lirica, magari, in futuro potrebbe pensarci un altro compositore. Celebri sono le musiche di scena per il poema drammatico Peer Gynt di Henrik Ibsen (1828 - 1906), composte dal norvegese Edvard Grieg (1843 - 1907).
Tra i personaggi troveremo anche una voce fuori scena, che è l’io narrante. Sulla scorta dei grandi poemi epici del passato, non ho potuto farne a meno.
Il dramma poteva concludersi anche con il solo primo atto, ma così avrebbe avuto la meglio il dolore, invece, ho voluto che continuasse con il secondo atto, con l’irruzione imprevedibile dell’amore. Farà la sua ricomparsa prepotentemente il dolore al terzo atto, ma tutto si concluderà nella pace, nell’amore, conquistato, purtroppo, a prezzo di sangue.
La poesia fa parte del mio essere, la prosa non è nelle mie corde (preferisco leggerla), non riuscirei mai a scrivere un racconto né un romanzo, ecco perché ho scelto il teatro e un dramma in versi per cercare di esprimere la mia vena narrativa e, al contempo, continuare a cercare di esprimere la poesia che il cuore mi detta.
Dopotutto, la poesia, nella sua accezione più ampia, non è solo quella legata ai versi ma alla prosa, alla musica e all’arte in genere.
Con la scrittura di questo dramma ho cercato di fondere le due cose in un tutt’uno: scrivere una storia servendomi dell’amata poesia e del teatro e, il teatro si presta molto a questo genere di connubi, solo così potevo esprimere la mia vena narrativa. Non a caso ho inserito una voce narrante fuori scena che, ogni tanto si fa sentire nel corso del dramma. Come scrivo in un mio aforisma, “[u]n poeta non deve mai lasciarsi condizionare dal marketing, dal consumismo o dalle mode del tempo, la sua ispirazione non sarebbe più spontanea e sincera, deve bensì lasciar parlare la propria anima, senza alcun condizionamento8. Quindi, nessuno può dirmi di scrivere un romanzo perché così ci sarebbero più lettori, ma, mancherebbe la cosa più importante: l’ispirazione. In fondo, la mia risposta al genere del romanzo è questo dramma epico, certamente di gran lunga più impegnativo ma per me l’unica possibile.
Un dramma in cui ho cercato di fondere il metastorico al fantastico, in cui ho cercato di fondere la poesia alla narrazione e al teatro, in cui la musicalità e la fluidità dei versi, solo nella versione scenica, si fonderanno alle musiche di scena.
Con la scrittura di questo dramma - per certi versi un caso a parte nella mia produzione - non ho potuto conformarmi alla spontaneità, alla facilità dell’immediatezza espressiva, come ho fatto di solito con le mie poesie; la spontaneità rimane però la prima idea, il “primo fuoco dell’ispirazione” che, negli anni ha subito vari ripensamenti e successive modifiche formali. La spontaneità rimane perché ho sempre atteso l’ispirazione per scriverlo, non mi sono mai seduto a tavolino pensando - adesso scrivo - e sono trascorsi quasi trent’anni da quell’abbozzo in prosa del solo primo atto (1989). Preciso che, dapprima ho abbozzato il solo primo atto in prosa, in seguito, dal 1990 l’ho trasposto in versi aggiungendo il prologo e proseguendo poi di seguito, senza prima abbozzare in prosa tutti gli altri atti. Anzi, tutto è nato dal primo atto, senza mai avere fin dall’inizio una visione generale della trama, cosicché, solo alla fine della scrittura del primo atto ho concepito la trama del secondo atto e così di seguito con i successivi tre atti.
Il grande scrittore, poeta e drammaturgo tedesco Johan Wolfgang von Goethe (1749 - 1832) ha impiegato sessant’anni per scrivere il Faust (1772 - 1831), la più vasta e la più grande opera teatrale in versi che sia mai stata scritta, dal primo frammento alla fine della seconda parte, praticamente una vita (ne aveva solo ventitré quando iniziò a scriverla) e pose la parola “Fine” un anno prima di morire, nel 1831.
Alberta Marchi - Oltre le apparenze (2016)
La cosa più difficile è stato darle uno stile il più unitario possibile. Il terzo atto è quello più dinamico, quello con maggior dispiegamento di masse attoriali, con l’intervento di ben tre cori di indigeni (due del villaggio islandese di Ragnar e uno del villaggio di Björn), per finire con un coro più esiguo (cinque elementi) di ubriachi che canticchiano con grasse risate una canzonaccia in stile popolare (servendomi della forma dello stornello), per conferirle, appunto, quell’impronta di popolaresco; una canzonaccia farcita di doppi sensi, la caratterizzazione dei personaggi lo richiedeva, ed è anche in rima, praticamente una “sprezzatura” necessaria nellʼeconomia del dramma; tuttavia, non si leggerà alcuna parolaccia, solo doppi sensi, si tratta sempre di un dramma epico, per di più in versi, ragion per cui, la caratterizzazione del linguaggio va adottata fino a un certo limite. È anche l’atto con il maggior numero di scene, ben dieci e con otto cambi di scena. Similmente ho proceduto con il coro di pescatori dell’inizio del quarto atto, dove mi sono servito ancora di uno stile stornellante ma senza doppi sensi, per caratterizzare le umili condizioni di quei personaggi.
Per la scrittura dei primi quattro atti ho impiegato poco più di dieci anni: dal 1989 (abbozzo in prosa del solo primo atto) al 18 giugno del 2000; il resto, a partire dal settembre 2006, è stato un lavoro di revisione, completamento e digitazione, con un’ultima interruzione negli anni (2013 - 2014), quindi, facendo due conti sono diciannove anni in tutto.
Nel 2016 la pittrice Alberta Marchi ha realizzato un dipinto ispirato al dramma, “Oltre le apparenze” che, con il suo consenso costituisce l’immagine della copertina. Prima ancora, alla fine del 2015 il critico letterario e poetessa Lucia Bonanni decise di iniziare a lavorare alla scrittura di un saggio monografico sul dramma in versi, che ha completato nel dicembre 2016 e che farà pubblicare prossimamente.
La prefazione è a cura dello scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio che attendeva fin dal 2011 che lo completassi; come postfazione, d’accordo con la Bonanni, è stato scelto il penultimo capitolo (“Una introduzione alla drammaturgia dell’Ingólf Arnarson”) del suo inedito saggio monografico; impreziosisce il tutto una nota storica a cura del Professor Marcello Meli, ordinario di Filologia germanica presso l’università di Padova e una quarta di copertina a cura del critico letterario e poetessa Francesca Luzzio.
Questa è la sintesi del messaggio che ho voluto lanciare con la scrittura dei 2380 versi del dramma: il mare abbraccia montagne, il dolore abbraccia la speranza, la speranza di commuovere cuori di pietra in un’alba d’amore, di pace e libertà.


Emanuele Marcuccio





1 «Nell’autore c’era anche la volontà di poter ascrivere il suo lavoro a un dato filone o categoria letteraria a partire dalle forme e dalle strutture che lo caratterizzassero. Se inizialmente l’autore definì l’opera poema drammatico, con una maggiore riflessione, e portando esempi concreti di questo genere di opera con le necessarie divergenze dal suo manoscritto, ha pensato che forse la definizione più consona e pregnante - sebbene abbastanza verbosa - fosse quella di dramma epico in versi liberi. L’intenzione era stata quella di privilegiare nella catalogazione in un genere non solo il contenuto (l’epica) ma anche la forma (quella teatrale, appunto, di un dramma).»  (dalla Prefazione di Lorenzo Spurio a Emanuele Marcuccio, Ingólf Arnarson - Dramma epico in versi liberi. Un Prologo e cinque atti, Santa Maria Nuova (AN), Le Mezzelane, 2017, p. 27).
2 
 Già in Rivista di Letteratura Euterpe, N. 23, Giugno 2017, pp. 83-87, ISSN: 2280-8108. [Il dramma epico in versi liberi è uscito il 28 agosto 2017 nella collana di Poesia "Ballate" per la marchigiana Le Mezzelane Casa Editrice: Emanuele Marcuccio, Ingólf Arnarson - Dramma epico in versi liberi. Un prologo e cinque atti, Prefazione di Lorenzo Spurio, Postfazione di Lucia Bonanni, con una Nota storica di Marcello Meli, Santa Maria Nuova (AN), Le Mezzelane, 2017, pp. 188, ISBN: 9788899964634. N.d.R.]
3 I riferimenti storici presenti nel dramma sono: la colonizzazione dell’Islanda, con approdo nella baia dell’attuale Reykjavík (874 ca. d.C.); l’insediamento eremitico dei papar, monaci irlandesi (inizio del IX sec. d.C.) e la fitta vegetazione islandese di salici e betulle, in seguito scomparsa per la costruzione navale, la forte presenza di pecore e l’edilizia.
4 Uno dei molti riferimenti fantastici è l’approdo che ho immaginato avvenisse a bordo di un fantasioso e improbabile gran dràkar (norreno), dotato di ponte, stiva e coffa in cima all’albero della nave.
5 Su suggerimento del linguista e antropologo Dario Giansanti, direttore e fondatore del progetto “Bifröst”, ho preferito utilizzare la lezione onomastica dell’islandese antico “Ingólf”, filologicamente più corretta, piuttosto che quella moderna di “Ingólfur”. Sempre su suo suggerimento i nomi norreni sono stati semplificati eliminando, dove possibile, la desinenza (-r) del nominativo singolare.
6 Il termine “normanni” l’ho inteso solo in senso etimologico, “norsemenn”, come uomini nordici (civilizzati), non in senso storico, differenziandoli dai vichinghi che sono pirati e selvaggi (barbari).
7 Natale Nogaret, in Jean Marie Dargaud, Viaggi in Danimarca e nell’interno dell’Islanda, Treves, 1874, pp. 115-228.
8 Emanuele Marcuccio, Pensieri Minimi e Massime, Photocity, 2012, n. 25, p. 11.
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