venerdì 19 agosto 2016

"Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca", nell'80° Anniversario

L’immagine riproduce l’opera “Fucilazione in campagna”
di Renato Guttuso (1911-1987).
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Oggi ricorre l'80° anniversario della morte del grande Federico Garcia Lorca (1898-1936), fucilato, barbaramente assassinato presso Viznar, nella pianura di Granada, all'alba del 19 agosto 1936.
Sulla sua morte Pablo Neruda così scrive: «L'assassinio di Federico fu per me l'avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L'arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l'antica lotta mortale fra l'ombra e la luce.» (da Confesso che ho vissuto)
Tra il 1997 e il 2000 omaggiai Lorca con quattro poesie, di cui due sono ispirate da quel 19 agosto. Quattro poesie in cui ho cercato di rivisitare liberamente il suo stile. Le quattro poesie di questo ciclo nel marzo 2013 sono state tradotte in lingua spagnola dallo scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio. Lo stesso che due anni dopo, in questo mese d'agosto ha dedicato un saggio storico-letterario a quelle due poesie ispirate a quel barbaro assassinio: L'impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio, pubblicato poi nello stesso anno alle pp. 20-27 della prestigiosa rivista di letteratura Quaderni di Arenaria, volume ottavo, diretta dal poeta, scrittore e critico letterario Lucio Zinna. Di seguito riporto il terzo dei quattro omaggi: "Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca"[1], insieme a due pagine del saggio di Spurio

Putrida vena,
d’un orizzonte disseccato.
I nardi esplorano
il loro chiacchiericcio inconsueto,
e nuvole di fango inondano
coi loro piombi infuocati.
Un’alba azzurra
si stende solitaria
su ambiguo crocevia,
e un riverbero di verde luna
si accende, su occhi di fumo.

Marcuccio esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue (una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce un olezzo “putrid[o]” alla definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole, unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della lirica. L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita nelle poesie lorchiane[2]) vengono colti nel loro “chiacchiericcio inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”. Inizia in questo modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”, indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte nel momento del fuoco. Il silenzio della campagna prima armonizzato dalla presenza di un lieve “chiacchiericcio” dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e hanno colpito i bersagli.[3] È il momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra, faccia sull'erba secca, della fine delle speranze e al contempo un ammutinamento della natura che, indifesa ed oltraggiata, non è capace di osservare il sangue che cola a terra.
La poesia è sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una “alba azzurra” che ha perso, però, la coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo ed infatti essa appare “solitaria” quasi da stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto di essa. Tutto a questo punto resta galleggiante nell'indefinitezza, nell'impossibilità di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva cantato la Terra: l’alba è “solitaria” e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia  perché, come detto sopra, il luogo dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.
Marcuccio mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei campi “disseccat[i]”, il grigio scuro delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione ed ancora, la luna nel suo “riverbero di verde”. La luna quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide di indossare l’abito verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.
Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema, proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell'utilizzo della tavolozza dei colori. (pp. 24-25)










[1] Emanuele MarcuccioPer una strada, Ravenna, SBC Edizioni, 2009, p. 75. 

[2] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua/ con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina/ col suo paniere di nardi”).
[3] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.

venerdì 12 agosto 2016

Sulle "scuole di poesia", un pensiero di Emanuele Marcuccio




Non è concepibile una cosiddetta "scuola" di poesia, dove "professori di poesia" pretenderebbero di impartire ai loro allievi "lezioni di poesia". Il termine scuola presuppone un sapere che raggiunge persone che ancora non sanno, quindi, queste "scuole" presupporrebbero di insegnare la poesia partendo da zero. Non esiste una definizione univoca di poesia, la poesia non ha regole fisse -quelle se le dà il singolo poeta, secondo il proprio metro di bellezza e di sentire poesia- e vogliono fare "scuola di poesia", che presuppone l'insegnamento di un sapere codificato? Tutto ciò è demenziale. Scrivo poesia da più di venticinque anni e so per esperienza che la poesia non si impara né si insegna in nessuna scuola. La poesia si legge, si sente, si vive per poi arrivare a scriverla, ma soprattutto si legge. L'unica scuola di poesia è quella dei grandi poeti. 

Emanuele Marcuccio

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