martedì 27 novembre 2012

“Pensieri minimi e massime”, recensione critica a cura di Natalia Di Bartolo


di Emanuele Marcuccio
Photocity Edizioni, Pozzuoli (Na), 2012, pp. 47
ISBN: 978-88-6682-240-0
Genere: Saggistica/Aforismi
Prefazione, a cura di Luciano Domenighini
Postfazione, a cura di Lorenzo Spurio
Curatrice d’opera: Gioia Lomasti
Cover: Francesco Arena
Prezzo: 7,60 €

Recensione a cura di Natalia Di Bartolo



Leggere un libro è sempre opera di scoperta e d’indagine, non solo nei confronti dei contenuti espressi dall’autore, ma anche nei confronti di se stessi.
Di fronte alla raccolta Pensieri minimi e massime (Photocity Edizioni, 2012), di Emanuele Marcuccio, poeta palermitano, classe 1974, è consigliabile avere avuto un approccio non solo con la sua prima silloge poetica Per una strada (SBC Edizioni, 2009), che cronologicamente la precede, ma possibilmente anche con i suoi “documenti biografici” personali, quelli che l’autore denomina “cronologia bio-bibliografica”.
Tale denominazione dimostra a chi si accosti successivamente alla lettura del suo secondo libro, come nell’opera letteraria in questione ci si trovi davanti comunque ad una sorta di agenda-diario, in cui la vita e lo scrivere si fondono e si integrano inscindibilmente ed il cui archetipo è plausibile che sia stato generato (piace immaginarne il seguito scritto a mano ancora oggi), nei tempi della prima adolescenza, giorno per giorno, avvenimento per avvenimento. Ogni più piccolo dato “cronologico bio-bibliografico”, infatti, è stato ed è ancora oggi curato e “repertato” privatamente dall’autore con la certosina pazienza dettata dalla costanza e dal perseguire coscienziosamente lo scrivere, che egli ha ritenuto essere la propria strada e che adesso si è concretizzato anche in questa seconda pubblicazione, corredata da una personale “Introduzione alla Poesia” a cura dell’autore stesso.
Tale costanza, alimentata dalla passione per la propria attività, ha contribuito a rendere la strada suddetta decisamente valida da percorrere e questa, sia pure “sentiero scosceso” (22), in salita come tutte le “strade artistiche”, è stata ed è supportata da documenti vergati con tale determinazione e puntiglio da far pensare che quello dell’autore sia un metodo ammirevole e potenzialmente vincente.
Ma, tornando all’opera letteraria di cui trattasi, occorre leggere i pensieri e le massime di Emanuele Marcuccio soprattutto tenendo conto della sua indole di Poeta. È un’indole innata, che si manifesta fin dal 1990, in giovanissima età, sui banchi di scuola, che si pone come impellente ed imprescindibile, facendo sì addirittura che il poeta scriva per la strada, per esempio, dove, non avendo altro supporto cartaceo, appunta i versi su uno scontrino, o si destreggi in piedi con carta e penna su un autobus affollato: la forza incontenibile dell’ispirazione.
Ci si può chiedere, allora, come mai, quale seconda opera letteraria, il Marcuccio pubblichi un libro di pensieri e massime e non di altre poesie. Ad avviso di chi scrive, alla luce di quanto sopra rilevato a proposito del suo tenere in archivio ogni particolare della propria vita letteraria, il suo carattere è permeato anche da una positivamente pervicace volontà di “memoria esplicativa”, che serva a rendere pure più agevole il percorso della sua poetica, per il lettore e per se stesso. Il Poeta fa chiarezza, nei pensieri e nelle massime, perché ne sente la necessità, ma anche perché farlo è utile a chi legga ciò che ha già scritto in poesia e ciò che scriverà in futuro. Nulla è lasciato al caso, anche se aforismi e massime si rincorrono apparentemente senza ordine d’argomento.
S’inizia a trattare di Dolore: l’autore lo mette in prima linea, lo paragona al mare, con il fluire incessante dell’acqua, memore del bagaglio poetico degli studi umanistici, ma Uomo già abbastanza addentro alla vita per poter aver provato, come tutti, l’umanissimo, cocente sentore di sofferenza a cui si attribuisce l’ampia accezione di “dolore”, contro il quale, a suo dire, può solo l’Amore (8). E di nuovo campeggia tale Dolore, illuminato da un lampo di speranza (2). E dal dolore alla Musica (3), felice cambio di registro.
Poi, transitando per la Felicità (5), passa al Tempo (6); e dal Tempo, finalmente, alla Poesia, tema fondante dell’intera opera. Poesia che nasce dall’Ispirazione (10), punto nodale della poetica del Marcuccio.
Nell’Ispirazione egli ritiene che l’inconscio si possa addirittura perdere, come in una strada spoglia, senza fronde, senza appigli. Tenendo sempre quale fulcro la Poesia, scrive dell’Ispirazione in diversi aforismi, incrociandola con la Cultura, ritenendola madre della riflessione e della scrittura (22), entità breve, fuggitiva e svelta: ai poeti saperla afferrare e trattenere stretta al cuore (27), ma capricciosa padrona che spesso tarda a far loro visita (28); caos nel quale solo i poeti riescono a mettere ordine (53). E da qui si dipartono ancora riflessioni calzanti sulla Cultura, si ritorna alla Musica, ritenuta espressione superiore anche alla Poesia nell’essere capace di far intuire l’Universo (36) e si aprono ulteriori ma non secondarie digressioni sulla Lingua, sulla traduzione in lingua straniera dei testi poetici da effettuarsi senza esitazione possibilmente da parte dell’autore stesso (il Marcuccio è pure un ottimo traduttore in Inglese), perché, anche se “l’abito è cambiato”, permanga ugualmente il suo spirito (38); così come prima egli aveva posto l’accento sull’importanza del non rinnegare mai il proprio dialetto (20).
E ancora riflessioni sull’essere umano, sulla sua ipocrisia nella falsa amicizia (16), ma anche e soprattutto sul suo ruolo fondamentale di fruitore della Poesia, motivo per cui costui compare, a questo punto, tra gli aforismi e le massime. L’autore lo ritiene addirittura “creatore” del Poeta, che senza di lui e la sua trasmissibile emozione non esisterebbe (49) e si inoltra poi nell’ambito puramente tecnico-filologico di quella Lingua che egli ritiene adatta alla Poesia, dall’incipit all’explicit (55).
Musicalità, fluidità e spontaneità, sintesi folgorante, ispirazione, senza mediazioni né di metrica, né di rima: tutto questo è vera Poesia” secondo il Marcuccio (58), poeta “ribelle come il fuoco” (torna in mente Cecco Angiolieri) anche ai canoni della Prosa, così come un autentico poeta, a suo dire, deve essere (59).
Le pause in poesia ed in prosa (59 e 60), la punteggiatura, il bagaglio letterario in generale vengono presi in considerazione, così come si accennava precedentemente, in una volontà finalizzata anche all’esplicazione della tecnica poetica dell’Autore.
E dagli argomenti più specifici, ecco di nuovo dispiegarsi la concezione di Poesia del Marcuccio nel senso più ampio del termine. Egli, dopo gli aforismi riguardanti il proprio giudizio sui fruitori della Poesia , il “mercato”, i gusti dell’ “illetteratura” che imperano nel nostro mondo (70), si apre nuovamente alla ricerca di quella “definizione” di Poesia” che egli stesso sa introvabile, perché la Poesia non ha confini e quindi non può essere definita (73), “rende l’ordinario straordinario” (74), non è al sevizio di nessuno e “quando vuole ci visita, basta rimanere in ascolto attento e attentamente osservare” (76).
Ma il Marcuccio non si definisce “Poeta”: la ritiene una parola troppo importante per attribuirsela da sé: “è sempre meglio essere chiamato poeta dai propri lettori” (78). E’ dal cuore che i poeti traggono tesori (83), ma cosa c’è fuori dal proprio cuore? “Che cos’è la folla se non apparenza?” (86) e gli uomini hanno “gli occhi foderati dalle nebbie del pregiudizio” perché si fermano alle apparenze (87). Allora forse è meglio stare lontani dal mondo, quando si può, e leggere, perché leggendo si riesce a frenare il tempo (12) e “si vivono innumerevoli vite sognando” (84). E, come si era constatato nell’aforisma quaranta, è proprio perdendosi nei sogni che, secondo il Marcuccio, si riesce ad ignorare la realtà, ovvero il crudo dolore di vivere, che pure serve per non annegare: ecco il ritorno all’inizio, all’acqua, al mare, “nel suo indistinto ondeggiare e rifluire incessante” (1); aggancio assolutamente velato, all’apparenza, ma che contribuisce a donare coerenza all’intera raccolta.
In essa il Marcuccio, intendendo mettere nero su bianco i suoi pensieri più pregnanti, invece di farlo in quella prosa ampia e stilisticamente coercitiva che non sente propria, lo fa in “pensieri minimi e massime”, come schivando la sua avversione verso la letteratura in prosa, ma servendosene ugualmente, con assunti sintatticamente spesso semplici, ma mai banali nei contenuti.
È riuscire a leggere il libro con la massima attenzione fin dall’inizio che ne dà il vero senso: al primo impatto, se quest’ultimo è superficiale, risulta possibile che l’opera non venga colta nella interezza della propria profondità e della propria utilità, perché potrebbe risultare un insieme apparentemente indistinto di riflessioni su argomenti svariati in ordine sparso. Se sviscerata con l’intento di penetrarne il significato fin dal primo pensiero, viene fuori, invece, il suddetto filo conduttore, tutto ciò che veramente l’autore ha sentito di esprimere, mediando pure tra Fede Cristiana ed amore per la Poesia Classica, in particolare per quella Tragica Greca (39) e per quella di Shakespeare, che traspare lampante da alcuni aforismi (non solo nel sessantanove, dove si opera palesemente una parafrasi della celebre frase de La Tempesta: “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, che qui diventano “le stelle”, ma anche nel ventotto e poi nel settantasei, dove aleggia lieve la Queen Mab di Romeo and Juliet).
Quasi liberatorio, poi, appare l’aderire dell’autore alla celebre poetica del Pascoli, in quell’“obliato proprio sé fanciullo” (da un verso della sua poesia “Sé e gli altri”, tratto dal volume Per una strada), condividendola ed esprimendone la condivisione senza alcuna remora né riserbo, senza alcun timore di ripetersi né di ripetere.
Il Marcuccio conduce il lettore tra le pagine di questa breve raccolta proprio con i pensieri che più lo rappresentano, che maggiormente danno l’idea della sua condizione di poeta che, pur nella sede specifica non poetando, sa trasmettere anche in tale contesto la profondità del proprio sentire, per se stesso e per chi legga. Quindi, ritornando all’inizio del presente commento, chi scrive, dopo aver condiviso tanti pensieri, dopo aver letto tante massime che a volte, proprio nella loro costruzione, esse stesse appaiono illuminate da un bagliore poetico, torna, chiudendo il personalissimo circuito del proprio sentire, a riflettere come sia vero che “leggere un libro è sempre opera di scoperta e d’indagine, non solo nei confronti dell’autore, ma anche nei confronti di se stessi”.

Natalia Di Bartolo
(Scrittrice, Poetessa, Critico Letterario-recensionista)

Catania, 19 novembre 2012




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